Il potere delle parole
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Il potere delle parole

Noi esseri umani siamo abituati ad etichettare gli altri, il mondo, noi stessi, inserendoli in categorie con un preciso significato e una precisa caratterizzazione.

Quando vediamo un animale a quattro zampe, con pelo corto, marrone, che scodinzola e abbaia, lo denominiamo “cane”, nonostante sia diverso da un cane visto il giorno prima. E’ un meccanismo che la mente attua per fare “economia” mentale, cioè per fare collegamenti mentali nell’immediato, più rapidamente, per condividere con gli altri i significati associati a queste categorie ed essere dagli altri compresi.

Se io nomino la parola “cane”, chi è accanto a me si aspetterà di vedere esattamente un cane. Se dovesse invece vedere un cavallo, storcerebbe il naso e mi guarderebbe stranito. Questo tipo di etichettamento non crea disagio o sofferenza, poiché in questo caso non prevede l’attribuzione di significati con valenza negativa o pregiudizievole.

Purtroppo però ci sono tipi di etichettamento che appiccicano alla persona significati scomodi e dolorosi da portarsi appresso.

Sin da piccoli infatti siamo abituati ad essere denominati dagli altri, in particolar modo dai nostri genitori, dai familiari, con nomignoli carini e teneri come “amore mio”, “cucciolo”, “principessa” etc…   Se ci comportiamo nei modi auspicati dagli altri siamo “bravi”, “talentuosi”, “forti”, “dolci”, ma quando non ci comportiamo come gli adulti vorrebbero, diventiamo degli “stupidi”, “lazzaroni”, “cattivi”, “monelli”…

Tutte queste parole con valenza positiva o svalutativa hanno un valore, hanno un POTERE, anzi un doppio potere: sanno suscitare emozioni molto intense e, come etichette, possono appiccicarsi addosso e restare come macchie indelebili, influenzando il nostro modo di percepire e definire noi stessi così come le nostre azioni e scelte di vita.

Faccio un esempio per spiegare meglio cosa accade:

Fingiamo che sin da piccola io sia sempre stata definita come una “frigna” perché considerata troppo sensibile verso situazioni emotive piacevoli o spiacevoli. Questo mio comportamento, invece di essere interpretato positivamente, è stato percepito come negativo e fastidioso dagli adulti di riferimento, con espressione di rimprovero, insegnandomi dunque che di fronte alle difficoltà non è buona cosa piangere o lamentarsi.

Questo etichettamento ha in sé un significato identitario e una reazione comportamentale che io mi porterò sempre dietro, condizionando le mie azioni e le mie relazioni future. Questo apprendimento mi porterà in futuro a non permettere a me stessa di esprimere emozioni come la tristezza o la frustrazione, consapevole del fatto che se dovessi mai “fare la frigna”, le persone mi allontanerebbero, lasciandomi sola.

Paradossalmente, qualora dovessi manifestare liberamente la mia emozione, sarei io stessa a definirmi “frigna”, ad arrabbiarmi con me stessa per aver espresso una emotività ritenuta sbagliata.

Cosa è successo alla piccola Micaela?

Ha sperimentato sulla sua pelle un giudizio negativo che ha condizionato il suo modo di concepire se stessa, il suo modo di vivere le emozioni e di agire, così come il suo modo di vivere le relazioni con gli altri. Ha imparato infatti che esprimere le emozioni negative ha un costo molto alto, ossia perdere l’amore e la vicinanza delle persone care. La perdita dell’altro o del suo affetto diviene quindi un incubo da evitare assolutamente, e per Micaela non si realizzerà finché negherà a se stessa la possibilità di manifestare le emozioni.

Come adulti dobbiamo fare molta attenzione alle parole con cui definiamo i bambini. Loro non sanno che non diciamo sul serio, che nel momento in cui abbiamo detto quelle parole eravamo mossi da emozioni negative e non siamo stati in grado di gestire diversamente la situazione.

Le parole hanno un significato, hanno un potere e possono FERIRE.

Facciamo caso anche alle parole che diciamo a noi stessi. Spesso quando sbagliamo qualcosa, facciamo degli errori, non raggiungiamo un obiettivo, ci giudichiamo negativamente e ci diciamo proprio quelle parole che in passato ci hanno ferito. Diventiamo noi i carnefici di noi stessi, reiterando un insegnamento sbagliato, doloroso e non coerente con la realtà.

 

Ci è utile questa svalutazione? Ci permette di essere migliori, di raggiungere l’obiettivo, di aumentare la motivazione? E soprattutto, ci fa stare bene?

Nell’esempio sopra citato, la piccola Micaela non è una “frigna”, è solo una bambina molto sensibile verso situazioni emotive, è una bambina in grado di esprimere adeguatamente le sue emozioni. Ha purtroppo avuto delle figure di riferimento che non avevano gli strumenti per accogliere la sua sensibilità, valorizzarla e interpretarla realisticamente.

Non solo le parole negative hanno un potere e un trasporto emotivo, ma anche quelle positive. Parole come “brava”, “fantastico”, “intelligente”, “forte”, “meravigliosa”…attivano in noi emozioni positive e ci fanno stare bene.

 

Ma cosa accade se sin da piccoli le nostre figure di riferimento ci etichettano, per esempio, come “bravi“?

Il bambino sentirà su di sé una certa responsabilità, ossia di dover ricoprire il ruolo di bambino “bravo” con il significato attribuito dalla figura di attaccamento. Un bravo bambino deve andare bene a scuola, deve essere autonomo, deve essere forte. Un bravo bambino non deve far preoccupare mamma e papà, non deve piangere e far sentire in colpa un adulto, non deve dare pensieri, non deve essere di peso.

Tutto questo per essere amato, per essere visto, per essere considerato.

Per essere un bravo bambino, dovrà quindi limitare i propri bisogni e necessità, mettersi in secondo piano per dare priorità all’adulto, dovrà essere migliore degli altri, il trofeo di mamma e papà.                Ciò condizionerà il suo modo di percepirsi, di provare emozioni, di pensare se stesso, di agire.

Influenzerà anche le sue relazioni future, dove dovrà essere una brava persona, che aiuta gli altri, che sacrifica i propri bisogni per gli altri oppure dovrà essere una persona prestante, capace, intelligente, eccezionale, la migliore.

E sarà intollerabile non essere all’altezza della situazione o essere egoisti in modo sano, in quanto l’errore sarà sempre un fallimento e il soddisfare i propri bisogni sarà sbagliato.

 

Da adulti cosa possiamo fare?

  • Riconoscere quali parole o frasi abbiamo appiccicate addosso, che creano ancora oggi malessere, condizionano il nostro definirci e le nostre relazioni.
  • Identificare dove abbiamo imparato queste parole, quando è stata la prima volta che queste ci hanno ferito.
  • Rileggere il passato con gli occhi dell’adulto che siamo, accogliendo la difficoltà delle figure di riferimento senza incolparle di ciò che è stato e del nostro disagio.
  • Fare caso a quando ci diciamo queste parole e allenarci a dirci parole più realistiche e funzionali.